In fondo vorremmo che fossero semplicemente nostri. Che fossero davvero una nostra appendice. Nessuno è immune. In fondo vorremo che non fossero altro da noi. I casi sono due: o ne facciamo tanti (crisi permettendo o crisi infischiando) o ne basta uno. E non per la crisi. È più facile credere, d’istinto e di natura, che sia nostro, che ci appartenga. E ti accorgi che, invece, sono altro da noi, non perché abbiamo due occhi, due gambe un volto, due mani, con cui afferrano, prendono e scarmigliano. Non da questa evidenza fattuale che induce moto, allontanamento. No. Ti accorgi che non ti appartengono perché scelgono. Diversamente da te. In opposizione a te.
Il capriccio, il sommo spauracchio di genitori con figli in età bambina, è da sedare, blandire ignorare, mortificare, domare. Il capriccio? Ma si. È la prova vivente che non sono nostri. È la voce con cui ci dicono: qui incomincio io e finisci tu. Si dice che le mamme, tutte, esclusa nessuna, sappiano come ferire. Sappiano usare le parole per farlo meglio di tutti. Più di tutti. È la controaerea al capriccio bambino. Qui inizio e finisco io e, tu , con me.
Avete ai pensato alla rabbia che induce il capriccio? È la misura dell’impotenza. Ci sentiamo stanche, non sappiamo gestirli. Andiamo dicendo. Ma, in fondo, in fondo, l’avvilimento è un altro. È la conferma che andranno via. Che sanno fare a meno di noi. Ed è l’inizio di un’ambivalenza, nel rapporto con la madre, che tormenta e svilisce. Che richiede occhi che approvano, sempre. O infinito spirito di ribellione. Fine pena, mai.