giovedì 11 luglio 2013

Il posteggiatore, daba e la macumba

Metti una giornata di sole, in mezzo alla settimana. Metti la preparazione rutilante della borsa da mare. Arancione, trasparente, un concentrato d'estate. Una ciambella issata da sotto in su, ballonzola attorno a una quattrenne dai piedini ardenti, abbracciata a George. Giù per le scale. Di corsa verso l'azzurro pocoyo di emmemobile e l'azzurro increspasto del mare. Onde come ricami occhieggiano dalla strada, mentre svolazziamo verso lo stabilimento.

Siamo arrivate. Laggiù c'è un parcheggio. No, non di quelli in zona rimozione che mi appagano, destando sconcerto. Altrui.
Laggiù, c'e anche un posteggiatore. Corpulento. La pancia in fuori. Tesa. Nera. Sudata. Abusiva. Scendiamo. Una mano carica di cose. L'altra congiunge e termina in minou.
Devo lasciare qualcosa, emme claudidcamte, modalità dimmi-di-no.
Beh, io sono qua..., posteggiatore consapovele.
In un guizzo di generosità colpevole, un deblone da due euro scivola nelle manoni da minatore del Minosse dei parcheggiatori abusivi. E abbrustoliti.

Il lettino e' parallelo. Alla spiaggia. Uno svolazzo di tunica beige. Lui è seduto li. Una conversazione fitta, di quelle che vogliono convincere. Con monypenny. Bracciali sbrillucicosi. Charms ammiccanti. La tunica rivela una mano. Prende la mia. Con l'altra mi studia il viso. Ho una linea della vita bella e lunga.
Ma tutto dipende da te.
Avrò sei figli.
Vuoi, un altro figlio? Si, vorrei.
I figli sono una fortuna, biascica l'indovino venditore.
Tu pensi?
Si, abbastanza.
No, troppo. Rintuzza l'indovino venditore.
Minou e' già guizzata in acqua. Con fatamorgana. Spuzzano e gridano felici.
Qual è la tua pietra? La corniola. Ecco questo per te. Dieci euro. No, domani devo comprare due libri. Portare fortuna, io conosco tutta la tua vita. Continua con fare fattucchiero. Incalza il mentitore. Sto per beccarmi una macumba: tu hai fatto sbaglio. Ci penserai. Tu hai fatto sbaglio. Ti pentirai. Ecco l'anatema che mi mancava. Mi produco in un tuffo propiziatorio. In acqua. Il vento accarezza. Il calore mi avvolge.

E' sbucata da destra. Daba. Ondeggia con passo sicuro sulla sabbia sottile. Di quelle che non hanno ritegno e ti ritrovi dappertutto. Ondeggia, dalla sua schiena, una testina afflosciata. Gli occhi chiusi. In un sonno di sole. Ha otto mesi. Viene dal Senegal. Accompagna la mamma al lavoro. Corpo contro corpo. Si siede sul lettino. La mercanzia sparsa davanti a lei. Abbassi la visiera? Halou continua a dormire. Rifacciamo il nodo al drappo che le contiene il figlio. Da quattro anni e' in Italia. Oggi non ho venduto niente. C'è un braccialetto desiderato da braccia maschili. Oggi hai venduto qualcosa, Daba. Riprende il suo incedere. Il bimbo e' dritto. Come il suo sonno. Iatture non pervenute.

Minou sguazza in acqua. Interrompe solo per scavare buche sulla sabbia. Alla ricerca dell'acqua. Anche le mie mani sono palette. Vieni mamma cerchiamo l'acqua insieme. Vieni, ti faccio vedere.
Poi va a prendere un gelato con le amiche. Cinque, dieci e tredici. Gli anni. Siedono al tavolo. Orgogliose e indipendenti. Uno scalpiccio sulla sabbia. La vedo rutilare verso di me. Mamma, me lo lecchi che gocciola tutto. Un ghiacciolo all'arancia.

Un altro bagno. Un'altra buca. Poi in cima a sciacquare i piedi. Ancor più su, sulla strada. Verso l'azzurro pocoyo e ustionante. Verso casa. Sfrecciamo sicure. Satolle. Di mare e di sole.

Una domanda, acciamo che tu sciacqui me è io sciacquò te? Un'affermazione, te lo faccio io lo shampoo, mamma. Le gote arrossate. Lo sguardo illuminato.







martedì 9 luglio 2013

Per stasera sono salva

Lo sai e' da una settimana che mati e giù dai nonni. C'è l'ha chiesto lei. A telefono e' sbrigativa. Mamma, io sto bene. Adesso vado che devo giocare con la play.
Una seienne alla sua prima vacanza senza mamma e papà. Scorati, nella capitale, perché mati da' il ritmo alla loro giornata. Il fratellino, quasi unenne, ancora gattona. Altro tipo di ali spiegate.

Quantomeno è li. A testimoniare il ruolo di bisogno. Di essere di bisogno per qualcuno. Un figlio. Ovviamente.

Come affrontare il desiderio di volare via, innocuo, vivo e profondamente urticante? Come classificare quella fitta che si mette proprio li' tra le costole fluttuanti, di fronte all'inarrestabile incedere del distacco (salvifico, perché fondante l'essere di un figlio?).

Mentre le parlava al telefono con la voce sul cuore perché mati insisteva io sto bene qui, mamma. E lei, ma non vuoi tornare a casa?, emme ascoltava sospesa. Cosa farei io? Mejor la muerte, ma a seicento km di distanza, minou non la lascio andare. Già. E, se lo chiede lei? Metto in atto tutte le digressioni possibili oppure sostengo quelle ali?

La risposta e' arrivata ieri sera. Così dal nulla, come le note del terzo movimento della nona di Beethoven. Torniamo a casa. Riti di pappa. Un nuovo gioco, la valigetta del dottore. Li nel lettino della sua camerette. Pigiamino a maniche lunghe di un inverno fa, il piumone rimboccato fino agli occhi. Buonanotte mamma. Abbracciata al suo peluche. La voce orgogliosa: stasera dormo qui. Da sola. Va bene. Assisa sul divano rosso. Tra le mani le pagine di un libro. La visione dell'attesa. Di un  ravvedimento. Perché non c'e' il mio respiro sul suo cuscino. La visione dell'attesa. Silente. Frammista ad un'amirazione adulta, stupefatta, verso quella robustezza bambina. Consapevole di un'alterita' in divenire.

Arriva salterellando, mamma posso avere il latte? Primo cedimento. Dico nulla e le preparo il latte.

Mamma, mi guardi mentre dormo? Trasferisco il mio corpo in slow motion sul pavimento rosa tappeto. Il libro che non svelerà la sua fine, tra le mani.

Mamma, mi racconti una favola? Inizio una nenia, il più possibile soporifera.

Mamma, va bene che stasera dormo con te nel lettone e domani da sola qui?

Un balzo misurato. Mano nella mano. Testa contro testa. Respiro su respiro.

Grazie, minou. Per questa sera mi hai salvata. Ma sono stata brava anch'io. Almeno spero.

venerdì 5 luglio 2013

Il potere abbagliante della salviettina

Questa mattina ho messo via nella scarpiera scarpe maschili buone per l'inverno. Hanno trovato posto  nel primo scomparto che ho aperto. E ....magia, hanno fatto capolino le havainas a fiori rosa di minou.
Guarda cosa ho trovato, ho esclamato garrula e sicura del potere calamitante della mia scoperta.
Si, ci voglio uscire, ha risposto minou-voce-rapita.
Ok.
Un manto nero copriva i fiori. Ci voleva una soluzione immediata. È salvifica. È bastato un gesto. Ho allungato la mano tra le pieghe fucsia della borsa ed eccole qua. Un rettangolo turchese. Una linguetta apribile e appare lei: la SALVIETTA UMIDIFICATA.
È bastato uno sfregamento. Convincente. Determinato. Ed ecco il rosa riprendere il suo nitore. Tutto bianco, il fondo. Come la camicetta della signora candida. Della candeggina Ace. 
Dopo l'iniziale stupore. La mia mente si è incagliata in una domanda: di cosa mai saranno fatte ste salviettine che furoreggiano, indispensabili, nell'universo mammario? Se un foglio di carta umidificato contiene cotanto potere, sarà il caso di rivedere i nostri principi pulenti. È già perché, la funzione magica delle suddette si manifesta anche con le macchie che, nerborute, affollano le mise bambine da zero a sei anni. Anche quelle degli adulti. Con una forza pulente più accanita del dixan!
Ho pensato che i barattoli di plastica di smacchiatori e via macchie potrebbero scomparire. Dalle case e dai supermercati. Una soluzione eco-sostenibile.
Ho immaginato che le salviettine umidificate ne prenderebbero il posto. Egregiamente. Via, dunque, dai cuculetti morbidi. Via, dunque, da manine e faccine. Da musetti. Odorosi di bimbi.
Evviva il profumo candido. Senza la candeggina di fogli di carta. Umidicci. E ripiegati.

mercoledì 3 luglio 2013

benedetta tetta, maledetta tetta

E poi c’è quella manina che si arrotola su un seno gravido. Stillante. E poi quella boccuccia che sugge. Prende vita. E poi c’è la testina che affonda nell’incavo del gomito. Come se ci fosse sempre sta. Allattare. Crescere. Far diventare grande. Nel significato più intimo e più onnipotente che una mamma possa sperimentare.
I benefici dell’allattamento. Non ti becchi un cancro al seno, previeni l’osteoporosi. Non è vero che cadano i denti. Accresci la tua autostima. Potenzi il sistema immunitario della luce dei occhi.
Insomma, tutto converge verso un tripudio e un trionfo di una naturalità, oserei dire, mammaria.
Allattare, dunque, naturaliter designa la tua mammitudine. Senza remissione. Sei mamma, dunque allatti.
Se così stanno le cose, quando un sistema di individui organizzati in società, rappresentata in un parlamento, discute di una proposta di legge che bandisce il latte in polvere, rendendo obbligatorio, per tutte le mamme, l’allattamento al seno, dovremmo tutti fare clap-clap. Ecco finalmente uno stato che statuisce una verità ovvia. Tutte le donne sono naturalmente mamme, perché tutte dotate di tette e tutte, dunque, allattanti.
La scena della consultazione è il parlamento venezuelano. In piena affermazione, economicamente parlando, autarchica.
Le attenuanti dell’obbligo? Solo motivi di salute della mamma – questa volta – contro il diritto dei figli di essere allattati.
La proponente? Una deputata Odalis Monzon. Socialista.
E così ti trovi a pensare che il senso di giustizia stia tracimando decisamente. Perché ci sono dei rappresentanti che legiferano sull’ontologia dell’allattare. Che è naturale, quindi dovuto. Che tentano di stabilire che sei mamma. Una buona mamma, se allatti. Che dividono le mamme in due serie, A e B. che, molto banalmente, omettono una cosa. Allattare il proprio figlio, i proprio figli, è una scelta. Sempre.  
Per ciò stesso, una mamma che ha iniziato, ha provato, poi ha smesso per ragioni che, qui e ora, ha ritenuto e considerato, non è meno bella di una mamma che ha continuato ad allattare.
Sono minou allattante. ancora. conosco il sapore dei sopraccigli che si levano in punti esclamativ, quando ne parlo. conosco le bocche che velocemente si schiudono in "oh" stupiti, come disarcionati.
a me va bene, così nella consapevolezza che non sono una mamma migliore di un'altra. solo diversa. elogio arricchente. 
stig dagerman, lo dice così: "...meglio è imparare/ troppo tardi a giudicare/ ma se proprio/ ma nel caso:/ ultimi gli altri/se stessi per primi."