giovedì 7 novembre 2013

cracco. senza. cracco

La porta di vetro si apre. Un’orchidea, phalaenopsis si erge sinuosa e algida su un tavolo. Nero. Ossidiana? Sbrigate le formalità. Prenotazione. A nome di, Il dito del signore in cravatta pigia il tasto. Arriva l’ascensore. Sempre lo stesso dito pigia il tasto le porte si chiudono senza rumore. Combaciano e la cabina va giù. Livello meno due. Me ne accorgo dopo. Un cameriere, di bianco e di nero, ci conduce a tavolo. Come un nugolo. Arriva il maître, il sommelier e l’aiuto-a-metterti-seduta. Poi il panchetto per la borsa di madame. Il tovagliolo sulle ginocchia, no. Quello lo faccio da sola. Spalle all’angolo. Abbracciata nella poltrona di pelle. I braccioli di legno. Atmosfera soffusa. Luci basse, ma adatte anche ai miopi. Rumoreggiare silente oltre porte da saloon. Accesso interdetto. mamma, ma da cracco, incontriamo bastiniach? minou masterchef-addicted proclama. labbra all'insù degli omini imperturbabili in bianco e nero. shhhh.... Ha inizio la sinfonia. Gesti discreti e accorti. L’acqua deliziosamente scorre. E il bicchiere è sempre mezzo pieno. Tripudio di vini bianchi e rossi. Note di biscotto, yogurt e ciliegia (tassonomia da baby degustratrice). Risotto con scampi, pomodori verdi e pinoli. Bocconcini di orata con taccole, fagiolini e pomodori. Tovagliato grigio. Lino e cotone. Posate lineari. Semplici senza fronzoli. Menù degustazione per lui, una carrellata di sapori infiniti. Raffinati. Di cibo. Cucinato bene. Essenza. Caffè. Trionfo di mandorle glassate, nocciole al cioccolato. Pasticceria mignon su una foglia divenuta piatto. Di porcellana. Bianca. Rigorosamente. L’album d'artiste di minou con i colori a pennarello troneggia sul piatto. “la signorina può spostare il suo disegno?”. No, dice lei, compunta “Appoggi qui”, dico io, serafica. Mano deferente. Che non disturba. Un valzer. In crescendo. Allegro con brio. Nessuno pesta i piedi qui. Nessuno è fuori tempo. Solo lui. Che non c’è. Perché lo vogliono oltre Atlantico. A Los Angeles. Non c’è. Aria di totale diludendo. Fino alla fine ho sperato. Di vederlo comparire. Mamma devo fare la cacca, annuncia minou, con incoparabile immediatezza bambina. Pausa toilette. Pardon, servizio. Scortate da camerieri in bianco e nero. Asciugamanine singole. Un cactus. Un profumo impalpabile, che non so dire. Lucente. Nel mio viaggio di andata, mi accorgo che la sala è gremita. I tavoli occupati. L’incidere è sicuro. Le paillettes nere delle scarpe di raso luccicano. Discrete. Da sotto al jeans lavagna. Sdrucito quanto basta e non ad arte. Ho pensato di venire in fucsia. In tuta. La mia mano stringe un mano bambina. Ritorno al tavolo. La cena volge al termine. Ho pensato che sarei potuta entrare anche con delle scarpacce. Perché lì, come il cibo, conta l’essenza. Il fatto, cioè, che vieni servito per gustare. Avere un esperienza sensoriale che dal palato va dritta al cuore. Alla testa. Benvenuti da Cracco, ristorante in Milano. Anche se lui non c’era. Ma ci ritorno.

Nessun commento:

Posta un commento