mercoledì 23 maggio 2012

From Medea. Maternity blues. emme incontra grazia

from medea (maternity blues) è una piéce teatrale. l'ha composta grazia verasani (bolognese doc, scrittrice e co-sceneggiatrice del film di fabrizio cattani). parla di rina, vincenza, eloisa, marga. sono madri. sono assassine. dei loro figli. mentre le pagine ti inghiottono, l'essenziale non è invisbile agli occhi. le parole scarnificano il loro significante. sono piane. nude. ti avvincono. i tuoi occhi non giudicano. cercano di capire. senza alcuna voluttuosa insistenza. potrebbe capitare anche a te. e cerchi di comprendere.

io grazia l'ho intervistata. ecco quello che ci siamo dette.


Com’è nata l’idea di scrivere un testo del genere?
E’ nata nel 2002, a ridosso del caso Franzoni. Non ero interessata al caso in sé, non è stata questa la molla, ma ero colpita negativamente dal modo superficiale e “fascista” con cui molti media, televisivi e cartacei, semplificavano il dramma e lo giudicavano imparzialmente. Mi era intollerabile assistere al carosello di opinionisti a gettone, criminologi, psicologi, personaggi televisivi che puntavano il dito invece di sforzarsi di scavare a fondo e di comprendere. Allora ho utilizzato la fiction, la materia letteraria, per raccontare una maternità diversa, non solo l’incubo della depressione post partum e le vicende famigliari e di solitudine vissute dalle mie quattro protagoniste, ma anche la fatica di essere madre oggi, soprattutto in questo paese, dove alle madri è richiesta una sovrabbondanza di meriti e mansioni superiore alle forze umane di chiunque.  Ho scritto di getto questo testo per le donne ma anche per gli uomini, anche perché credo fermamente che una donna che uccide un figlio sconta una pena che non ha termine, è interna, definitiva, e proprio per questo ha il diritto (e la società deve garantirlo) di continuare a vivere e di essere curata.
Quale donna di quelle che racconti hai conosciuto? Quale ti rappresenta?
Le ho conosciute dentro di me.  Mi rappresentano tutte, perché mi sono immedesimata totalmente. Ho letto anche molte testimonianze, grazie ad un amico psichiatra. Ma poi ho cercato in me stessa. Il testo nasce anche come mia forma personale di ribellione contro il senso di colpa cattolico, e infatti l’unica che alla fine si toglie la vita è anche l’unica a essere credente. Nella maggioranza dei casi, l’infanticida tenta il suicidio, che è come sappiamo condannato dalla religione cattolica. Ma sopravvivere al senso di colpa, in una società civile e laica, dovrebbe essere una responsabilità, non un’espiazione.
Cosa ti ha affascinato della mente di queste madri?
La loro profonda solitudine. L’incapacità di parlarne con la propria madre, con le amiche, con i compagni, perché ci si vergogna di soffrire, di confidare un disagio, o di non provare istinto materno. Sono donne che non comunicano il loro malessere soprattutto per la paura di essere giudicate madri snaturate.  Sono donne depresse che spesso non hanno la forza di chiedere aiuto.
Perché, secondo te, accade?
Perché la società, non solo le persone che ci stanno più vicine, sono spesso distratte, perché c’è un atteggiamento manicheo: bianco o nero, buono o cattivo, e non si va mai in profondità.  Perché la tv ci racconta le maternità edulcorate delle attrici, ma per la maggioranza delle donne non è così. Le donne lavorano, si occupano della casa, dei figli, e sulle loro spalle gravano troppe aspettative. A volte il troppo stroppia, e si esplode. Bisogna parlarne. Bisogna prevenire. Bisogna lavorare a una società che sia più dalla parte delle donne e delle madri.
Hai figli?
Non in senso stretto, non in senso biologico.  
Se dovessi definire la tua piéce con un aggettivo, quale sarebbe?
Dura. 
Com’è nata la collaborazione con Fabrizio Cattani?
Si è interessato al testo quattro o cinque anni fa, è stato un lungo iter, molto difficoltoso per lui. Nessuno voleva produrre un film del genere. A riprova che in Italia è ancora, purtroppo, un tema tabù. Fabrizio ha creduto con passione in questo progetto e gliene sono grata.

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